martedì 25 novembre 2008

THE SHOW MUST GO… GREEN




Un set cinematografico dura il tempo delle riprese, poi diventa un rifiuto, un peso soprattutto per l’ambiente; tonnellate di carta che dopo poche ore vengono accartocciate. Un esempio lo è la trilogia de “Il Signore degli anelli” dove il paese degli Hobbit è stato realizzato scavando le colline neozelandesi, compromettendo notevolmente l’equilibrio ambientale, al termine delle riprese infatti è stato necessario contattare una équipe di biologi per cercare di attenuare le alterazioni prodotte. (Dati presi dal sito http://www.ilsole24ore.com/).

Anche l’industria dell’intrattenimento e dei videogiochi deve quindi prestare attenzione alla sostenibilità perché ha un impatto elevato sull'ambiente, non siete d’accordo?
Sono comunque state messe in atto alcune strategie e tecnologie a breve o lungo termine, (a mio avviso sono insufficienti): la Disney ha sostituiti le grosse quantità di carta con dispositivi in rete che fanno risparmiare tempo e denaro, la Dreamworks è completamente ecoefficiente.
La sfida credo che sia quella di trovare un raccordo tra noi, il pubblico, e i produttori, perché i film sono creati per accontentare sempre più un pubblico che ormai non si stupisce di niente, più noi chiediamo più i produttori s’ingegnano, se provassimo ad usare un po’ di più la nostra fantasia e meno quella degli altri, oltre ad un vantaggio ambientale, magari scopriremmo qualche talento in più, nascosto in noi, o semplicemente un divertimento maggiore, chi lo sa…
Concludo dicendo che l’ecologia non è un limite, ma un’opportunità, come dice il designer industriale e digital content creator Stefano Cieri “Includere il pensiero dello sviluppo sostenibile quando prendono il via nuovi progetti è un’esperienza creativa di grande ricchezza”.
Pensateci…

Elisa

venerdì 21 novembre 2008

Concorsi truccati, «Io raccomandata pentita, mi sono riscattata...»

MILANO - Dare spazio alle denunce oppure spiegare il meccanismo cioè come si fa a truccare un concorso nelle università italiane? Citare a caso qualcuna tra le centinaia di segnalazioni che ci sono arrivate da Milano, Roma, Avellino, Bari o scegliere solo alcuni casi emblematici?

LA LETTERA - Ecco il testo di Lucia (nome di fantasia): «Io ottenni una borsa di studio dottorale messa in palio dall'università di ... che fu finanziata dall'ente pubblico presso il quale lavoravo, ergo: era la mia borsa di dottorato. Volevo fare il dottorato da quando mi ero iscritta all'università; non sono nè figlia nè nipote di, ma ero l'assistente di... In attesa nel concorso trovai un posto come consulente presso un ente pubblico, nel quale mi occupavo della stessa materia della mia tesi, e il mio Professore «arrangio» il finanziamento. Mi presentai al concorso. Mi sedetti coi 7 partecipanti; si fecero gli scritti a porte aperte e gli orali a porte chiuse. Vinsi, ovviamente, la borsa. Sono pronta a difendere quanto le sto per dire sotto giuramento: mi creda quando le dico che non ci dormivo la notte, mentre questa prassi (di raccomandazione o finanziamenti ad hoc) era del tutto accettata, e non criticata, dai dottorandi che ne usufruivano.

I DUBBI - Io invece mi chiedevo in continuazione: sono un dottorando perché sono veramente dotata in questo campo o perché sono l'assistente di con la borsa finanziata da? Le sembrerà banale e invece è un punto chiave: quel che i dottorandi si sentono dire è infatti che, in virtù della mancanza di risorse, «vanno create le occasioni» per poterli mandare avanti. Mi domandavo: mi mandano avanti perché sono bravo, o sono bravo perché mi mandano avanti? Inutile dirle infatti che io ricerca, negli 8 mesi che resistetti, non ne feci mai. Feci solo, e tanta, assistenza. Senza mai sentire NESSUNO lamentarsene oltre misura. Torturata - letteralmente - da una profonda insicurezza circa le mie reali capacità e la mia volontà di sostenere un compromesso che mi sembrava, di fatto, una truffa venduta come «l'aver creato l'occasione», mi iscrissi di nascosto ad un secondo concorso al Politecnico di Milano. Mi alzai alle 4 del mattino per presentarmi al concorso senza sapere nulla nè della commissione nè dei partecipanti, e vinsi la seconda borsa in palio; inutile dire che si fecero scritti e orali a porte aperte. Ricordo il messaggio che spedii a mia sorella con le lacrime agli occhi «una vittoria mia, ma una vittoria di tutta l'università italiana». Di li a poche settimane mi chiamò per una intervista di lavoro un politecnico olandese per un posto di assistente alla ricerca, sulla base del mio mero curriculum vitae, e mi fu offerto il posto. Me ne andai, e non mi sono mai voltata indietro.

Nino Luca
18 novembre 2008

COMMENTO

L'università italiana è sempre più truccata e corrotta, al giorno d’oggi una laurea vale poco nel mondo del lavoro, ma questo non vuol dire che sia alla portata di tutti, anche se ormai chiunque può aggiudicarsela, e se non si riesce con i metodi classici il Dio denaro o le raccomandazioni risolvono tutto. Ma ci si sente veramente appagati di quel foglio senza valore? Lucia, la ragazza che nell’articolo racconta la sua storia non ne è convinta, infatti lei vinse una borsa di dottorato grazie alla raccomandazione di un suo Professore. Questo le procurò un grande rimorso e una profonda insicurezza, che non riuscì ad abbandonare fino a che non vinse un concorso e trovò un lavoro con le sue sole forze. La cosa che più mi sconvolge è che, come scritto nell’articolo “questa prassi (di raccomandazione o finanziamenti ad hoc) era del tutto accettata, e non criticata, dai dottorandi che ne usufruivano.” Non ci sono scrupoli, i rimorsi di Lucia sono più unici che rari, ma questi “dottori” troveranno veramente il loro posto nel mondo? Si sentiranno mai orgogliosi di loro stessi? Otterranno il rispetto degno della posizione che occupano nel mondo del lavoro? Secondo me no. Solo chi avrà la volontà e il senso di dignità di non accettare il compromesso cui le università italiane chiamano la nostra coscienza vivrà una vita degna di questo nome. Concordate?

venerdì 14 novembre 2008

L'uomo incinto è ancora incinto

NEW YORK – Mammo è bello. Due volte ancora di più. Thomas Beatie, il 34enne dell’Oregon diventato famoso come il primo «uomo incinto» della storia ci riprova. Dopo aver dato alla luce la primogenita Susan Juliette, lo scorso 29 giugno, Beatie aspetta il suo secondo figlio. […]

Nell’intervista l’uomo parla anche del rocambolesco parto di Susan. «Ho avuto le doglie per oltre 40 ore», racconta, «ma non ho voluto il parto cesareo ed è stata Nancy a tagliare il cordone ombelicale della piccola». Nato donna, Thomas si è sottoposto a un'operazione chirurgica per farsi rimuovere il seno e da anni assume ormoni per aver un aspetto maschile. Ma la sua scelta di diventare trans-mamma non è stata facile. «Sono rimasto scioccato da come la notizia ha fatto il giro del mondo in poche ore», spiega alla Walters «finendo sui siti web dalla Cina alla Romania, e dalla Russia al Brasile». Da allora è divento lo zimbello di tabloid scandalistici e paparazzi, puntualmente ridicolizzato dai comici della notte. «Alcuni mi chiamano un obbrobrio», si lamenta, «ho ricevuto migliaia di insulti anonimi via Internet e tantissime minacce di morte». In realtà Nancy e Thomas si considerano una famiglia tradizionale. «Siamo un uomo, una donna e un bambino», spiegano, «cioè una famiglia, come tantissime altre».

Alessandra Farkas
13 novembre 2008


COMMENTO
Grazie alla chirurgia Thomas Beatie, nato donna, ha potuto assumere un aspetto maschile, ma ovviamente il suo organismo è rimasto quello di una donna, per questo ha potuto concepire e partorire già una volta, ora si appresta a ripetere quest’esperienza. La notizia ha fatto il giro del mondo e le opinioni sono le più varie, molti lo hanno insultato e minacciato. Io trovo ingiusto e scandaloso arrivare a questi atti violenti e quasi crudeli, non appartiene a noi la vita di questo “uomo” e non tocca a noi accusarlo, ma non posso dire di condividere la scelta di Thomas, anzi fa orrore anche a me ciò che ha fatto, perché è contro le leggi della nostra stessa natura, ha cambiato qualcosa di più grande di lui, che non spetta a lui decidere. Lui nell’articolo sostiene «Siamo un uomo, una donna e un bambino cioè una famiglia, come tantissime altre», vi sentite di concordare? Io no. Pensate soltanto a quei due poveri bambini che crescono con un papà che partorisce, che percezione avranno della realtà? Penseranno di essere onnipotenti, che possono cambiare tutto ciò che vogliono, tutto ciò che è naturale.


venerdì 7 novembre 2008

I MEDIA SONO LA PELLE DELLA SOCIETÀ

Ferruccio de Bortoli, Direttore Il Sole 24 ORE

Pochi anni fa una pubblicità di un regista famoso mostrava il volto di Gandhi su un grande schermo. La voce fuori campo si interrogava su come sarebbe stato diverso il mondo se il leader pacifista indiano avesse avuto a disposizione i moderni mezzi di telecomunicazione. Negli stessi giorni un mio collega mi chiese: “ Sì, ma se al posto di Gandhi ci fosse stato Hitler, se il nazismo avesse potuto contare su ben maggiori mezzi di comunicazione di massa, che cosa sarebbe accaduto?”. Se mi avessero prefigurato, soltanto una ventina d’anni fa, l’enorme sviluppo della tecnologia dell’informazione, avrei certamente immaginato che questo avrebbe comportato una netta prevalenza degli effetti positivi su quelli negativi, una primazia dei valori della solidarietà e della tolleranza sugli odii e sui sospetti. La caduta del muro di Berlino, del resto, non sarebbe avvenuta, con quelle modalità, senza la forza evocativa e dirompente della televisione. Il confronto fra le condizioni di vita e lo stato dei diritti civili e politici nell’Europa dell’Est e nelle democrazie occidentali, sarebbe stato assai difficile senza le comunicazioni satellitari. La pulizia etnica nei Balcani avrebbe avuto esiti addirittura più catastrofici senza l’occhio degli inviati, lo sguardo delle telecamere, la telefonia cellulare. Ma niente di tutto ciò, al contrario, accadde nel Rwanda dove il genocidio, scatenato peraltro da una radio locale, si consumò nella penombra mediatica, senza toccare né turbare la coscienza dell’opinione pubblica mondiale. Niente di tutto ciò avviene in molti altri angoli della terra, ugualmente dimenticati, nei quali le minoranze etniche, ma anche religiose (soprattutto cattoliche) non hanno diritto di voce e spesso è loro negato persino il diritto all’esistenza. Ciò che succede nel Darfur ci lascia indifferenti, non smuove i grandi network, né le testate più importanti.

Alcune tragedie ci impressionano, altre scorrono via e vengono dimenticate in fretta.Dobbiamo forse concludere che se il bene può essere contagioso, il male è addirittura più sottilmente epidemico? Ed esiste, sotto traccia, una forma di malcelato razzismo nelle scelte del potere dell’informazione? Una delle caratteristiche meno conosciute, ma più perniciose, della globalizzazione dei media è la seguente: godiamo di molti messaggi, di informazioni, di dati. Abbiamo la falsa sensazione di essere testimoni diretti degli avvenimenti in una sorta di onnipotenza mediatica. Ma ci dimentichiamo di tutto in fretta. Siamo ricchi della nostra superficialità. Sappiamo un poco di tutto e nulla in maniera approfondita e critica. Siamo dei surfer dell’attualità. Il pensiero tende anch’esso a digitalizzarsi, a scomporsi in tante piccole unità formate da battute, invettive, slogan ma assai di rado è ragionamento complesso ed elaborato. Il grado di attenzione di chi legge e guarda è basso ed erratico; lo spirito critico e il tasso di partecipazione a volte sono quasi irrilevanti. Un’amara realtà che coinvolge la responsabilità anche di noi giornalisti. Nel passaggio alla multimedialità, alla dimensione industriale e globale dell’informazione, abbiamo abbassato la nostra soglia etica, nella ricerca spasmodica dell’attenzione, dell’audience, e alzato il livello del cinismo professionale. Come la cattiva politica si imbarbarisce nel solleticare gli istinti più bassi dell’elettorato, la cattiva comunicazione massaggia il ventre dell’utente, ne dimentica la personalità, lo riduce a entità animale. Nonostante tutto ciò, gli aspetti largamente positivi non mancano. La Rete è uno straordinario mezzo di comunicazione nel quale gli utenti si autoproducono le informazioni. […]

L’etica della funzione giornalistica è di ardua applicazione in Paesi a democrazia più matura; figuriamoci là dove non vi è soluzione di continuità fra poteri dello Stato e fra Stato e religione. I blog sono l’ultima frontiera della democrazia in Rete, ma dal mondo islamico si affermano di più quelli che, come armi affilate, sono gestiti da organizzazioni terroristiche, piuttosto che le mille voci di dialogo e sofferenza sparse per il mondo mediorientale e in Paesi nei quali non viene riconosciuta né la libertà d’espressione né altri diritti civili o politici. I ragazzi istraeliani e palestinesi frequentano gli stessi siti, ma ciò non ha favorito né la comprensione né il dialogo. La comunicazione globale, dunque, non è sempre indice di maggiore comprensione e di rispetto dell’altro. Tutt’altro. Benedetto XVI ha richiamato la nostra attenzione, sia nella Spe Salvi sia nel messaggio per la giornata mondiale delle comunicazioni sociali, sul ruolo moderno dei media. I quali sono strumento insostituibile di alfabetizzazione e di socializzazione, al servizio di un mondo più giusto e solidale, ma offrono anche “possibilità abissali di male che prima non esistevano”. Come nella parabola evangelica del campo, convivono grano e zizzania. E nel contesto liquido-moderno, come lo chiama Zygmunt Bauman, la paura è la costante quotidiana, l’incertezza una compagna di viaggio che si mostra fintamente amichevole. La modernità una crosta di ghiaccio sottile della quale avvertiamo sempre di più la fragilità. Siamo spettatori in diretta di ogni fatto, ma spesso vittime predestinate; perché siamo privi di strumenti per capire, anche quando pensiamo di possedere un metodo illuministico di interpretare la realtà. L’illusione della potenza individuale offerta dalla multimedialità annulla spazio e tempo. La sensazione di libertà è spesso del tutto falsa. Milan Kundera la descrive bene. “Nella nebbia si è liberi, ma è la libertà di chi si trova nella nebbia”. Questa consapevolezza della condizione dell’uomo contemporaneo è l’elemento mancante di una riflessione sulla solitudine della comunicazione globale. La ricerca di senso e di una nuova centralità della persona sono allora passaggi ineludibili e necessari, soprattutto per un cristiano, affinché la comunicazione rifugga dall’omologazione e ritorni a dare un senso alla dimensione interiore, eviti l’eccessiva rappresentazione, a volte sterile, della sola superficie degli avvenimenti, dell’estetica delle cose. Noi ci troviamo di frequente concentrati a spiegare nei dettagli un processo perdendo completamente di vista la direzione e il significato ultimo degli avvenimenti. Non ci importa dove si va, ma con attenzione decadente per i particolari, ci occupiamo solo di come si va. Ci importa il gioco del potere, la contrapposizione dei caratteri, lo spettacolo dei conflitti, non la ricerca né del bene e della verità. Le opinioni tendono a sovrapporsi ai fatti. E quando i fatti disturbano le opinioni è più facile che cambino e vengano manipolate le prime. Vittime e carnefici, colpevoli e accusatori, sembrano scambiarsi i ruoli in una sorta di rincorsa amorale all’audience o all’attenzione sempre più rara del pubblico. Chi ascolta, guarda o legge perde capacità critica e si trasforma in un ricettore passivo di discorsi ininterrotti, di frasi ad effetto, di suggestioni primitive e con il passare del tempo rifiuta di ragionare, respinge tutto ciò che comporti un atteggiamento attivo e selettivo e appare refrattario ad ogni stimolo culturale. La passività sconfina nel terreno fertile dei pregiudizi e nelle paure.

Una buona informazione eleva il cittadino e lo solidifica nelle sue libertà; una cattiva lo spinge verso lo stato primitivo. Si sono globalizzati i prodotti, si sono globalizzati i media ma spesso i popoli hanno riscoperto tendenze tribali. Questa è l’altra grande sfida che i media hanno di fronte: aiutare una cittadinanza globale a non avere paura del prossimo e del diverso; e nello stesso tempo confortare la ricerca dei legami e delle appartenenze. Combattere la progressiva perdita dell’interiorità, l’omologazione, lo scomparire di una dimensione educativa. Mi ha sempre colpito il passo del Vangelo, citato frequentemente da Carlo Maria Martini, nel quale una donna malata si stringe attorno a Gesù e tenta di toccare il lembo del suo mantello nella speranza di ottenere una guarigione. Qui sono racchiuse tre realtà contemporanee: la massa, la persona e la comunicazione. La prima esemplifica la condizione moderna delle platee di spettatori, indistinti fruitori di un confuso messaggio; ma dalla massa una persona può emergere, toccare il lembo del mantello, a patto che abbia volontà, fede, e sia raggiunta da una comunicazione significativa e rispettosa. Senza la qualità di quest’ultima, però, nulla è possibile. La persona resta annegata nella massa informe. Molti passi evangelici dovrebbero farci riflettere su come comunicare meglio, ma anche sul fatto che non si debba temere alcuna forma di trasmissione del pensiero e della parola. Il Papa ci ricorda che “nel settore delle comunicazioni sociali sono in gioco dimensioni costitutive dell’uomo e della sua verità”. E ci richiama al dovere di far sì che “i media restino al servizio della persona e del bene comune e favoriscano la formazione etica dell’uomo”. Una infoetica come esiste una bioetica? Non lo so, credo personalmente che tanti piccoli buoni esempi, un po’ più di umiltà e di senso critico, e meno militanza (lo dico anche per i cattolici) possano migliorare la qualità dell’informazione. Basterebbe, per esempio, che i giornalisti facessero solo il mestiere dei giornalisti. Null’altro. Una maggiore etica della funzione nella consapevolezza che può essere in conflitto con altri diritti soggettivi, altri valori. Ma è meglio sapere per decidere, piuttosto che nascondere nel tentativo di curare. E io rispetto di più il mio lettore se lo informo bene e correttamente, non se gli nego di sapere considerandolo alla stregua di un cittadino inferiore o addirittura di un suddito. Forse quel cittadino non toccherà il lembo di Gesù, spetta ad altri illuminarlo non certo a noi giornalisti, ma dalla massa informe un po’ si sarà staccato. Grazie.


COMMENTO
Quest’articolo mostra il grande ruolo che giocano i media, e valuta se il recente sviluppo della tecnologia dell’informazione abbia influenzato positivamente o negativamente la nostra società.
In un primo momento vengono esposte due critiche:
1“Una delle caratteristiche meno conosciute, ma più perniciose, della globalizzazione dei media è la seguente: godiamo di molti messaggi, di informazioni, di dati. Abbiamo la falsa sensazione di essere testimoni diretti degli avvenimenti in una sorta di onnipotenza mediatica. Ma ci dimentichiamo di tutto in fretta. Siamo ricchi della nostra superficialità.”
2“ Il grado di attenzione di chi legge e guarda è basso ed erratico; lo spirito critico e il tasso di partecipazione a volte sono quasi irrilevanti. Un’amara realtà che coinvolge la responsabilità anche di noi giornalisti. Nel passaggio alla multimedialità, alla dimensione industriale e globale dell’informazione, abbiamo abbassato la nostra soglia etica, nella ricerca spasmodica dell’attenzione, dell’audience, e alzato il livello del cinismo professionale.”
Con la prima critica devo dire che non mi trovo molto d’accordo, o meglio, credo che sia una cosa che si può estendere a tutti i media a parte il più importante, a mio avviso: il quotidiano. La superficialità può essere propria dei telegiornali, della maggior parte delle informazioni in rete, della radio e di tanti altri mezzi di comunicazione, ma qualcuno può dire che i quotidiani siano superficiali? Che siano di parte è palese, forse anche con pregiudizi, ma superficiali non credo proprio.
Con la seconda critica sono assolutamente e totalmente d’accordo. Si fa di tutto pur di alzare gli ascolti, non credete?
Successivamente viene esposta la difficoltà di rendere il circolare delle informazioni un’occasione d’incontro tra “diversi” e quindi un punto di comprensione e rispetto degli altri. Questo perché siamo incapaci di comprendere appieno la realtà che ci circonda: “Siamo spettatori in diretta di ogni fatto, ma spesso vittime predestinate; perché siamo privi di strumenti per capire, anche quando pensiamo di possedere un metodo illuministico di interpretare la realtà.” Questo credo sia vero, quante volte ci è capitato di urlare contro il telegiornale? O di lanciare giudizi affrettati su tutto ciò che leggiamo o sentiamo? E quante volte abbiamo la certezza che questi giudizi siano veri? Mai. Molte volte quello che ci circonda è talmente lontano ed estraneo da noi che pur sentendone continuamente parlare non lo comprendiamo realmente, invece “Ci importa il gioco del potere, la contrapposizione dei caratteri, lo spettacolo dei conflitti, non la ricerca né del bene né della verità.” Non siete d’accordo?
In seguito l’autore, Ferruccio de Bortoli, afferma che è compito dei media educare “a non avere paura del prossimo e del diverso”. Compito quasi palese, non concordate? Il loro potere di trasmissione delle idee è troppo forte e se anche i media ci indirizzassero verso il razzismo credo che non avremmo più scampo.
Infine Bortoli espone una considerazione sul ruolo del giornalista, affermando che non spetta a lui “illuminare” il cittadino, ma è giusto aiutarlo ad ampliare le proprie vedute. Anche questo trova il mio assenso, siete d’accordo?

mercoledì 5 novembre 2008

Spinelli, prostitute, elemosina. Da oggi scattano le multe da 500 euro

Partono i divieti. Il controllo sarà affidato non solo ai 3000 ghisa ma anche ai 7000 tra poliziotti, carabinieri e finanzieri

Le hanno soprannominate ordinanze anti-degrado. «Per tutelare i cittadini da comportamenti pericolosi e che limitano la libertà». Sono figlie del decreto Maroni, quello che conferisce ai sindaci poteri per difendere l'incolumità pubblica. Milano ci ha messo qualche mese in più di altre città. Per integrare la repressione con interventi sociali. Ieri il sindaco Letizia Moratti ne ha firmate ben sei. Contro l'uso e l'acquisto di stupefacenti in pubblico, contro chi si prostituisce in luogo pubblico compresi i clienti, contro l'accattonaggio molesto (con relativo «sequestro » dell'elemosina), contro i writer che scarabocchiano i muri pubblici e privati, contro il consumo degli alcoolici all'aperto. Le ordinanze sono immediatamente esecutive.

Da oggi scattano le sanzioni. Salatissime: 500 euro (450 se si decide di pagare entro i primi 5 giorni). Il controllo non riguarderà solo i 3000 ghisa ma anche i 7000 tra poliziotti, carabinieri e guardia di Finanza di stanza a Milano. In caso di minorenni, la sanzione verrà notificata ai genitori o a chi ne ha la patria potestà. Accanto alle sanzioni, il Comune ha stanziato tre milioni di euro per programmi di prevenzione, sostegno e recupero. «Siamo la prima città italiana - ha detto la Moratti con a fianco il vicesindaco Riccardo De Corato e l'assessore Mariolina Moioli - che ha emesso le ordinanze per la sicurezza unite a interventi di prevenzione, di sostegno e di recupero sociale». Chiaramente, su base volontaria. […]

Maurizio Giannattasio
05 novembre 2008



Il sindaco Moratti ha approvato alcune ordinanze che regolano l'uso di droga, alcool, la prostituzione, l'accattonaggio e l'imbrattamento di muri in luoghi pubblici. Non è molto, ma è già qualcosa, le leggi ci sono perchè non farle rispettare?
Credo che tutti possiamo affermare che droga, alcool in eccesso e prostituzione portano ad un degrado della vita, penso che sia quasi masochismo, perche l'uomo deve farsi del male per divertirsi? Ma il peggio è che proprio la legge, che dovrebbe essere in funzione della vita, fornisce scappatoie così evidenti, mi sto riferendo al fatto che, per esempio, viene vietata la prostituzione in luoghi pubblici, non la prostituzione e basta. Ovviamente siamo in Italia, una scappatoia ci deve essere!